“Quando c’era Marnie” (思い出のマーニー, lett. “Marnie dei ricordi”) è l’ultimo (in ordine di uscita, ma forse, almeno per ora, anche in senso assoluto) lungometraggio prodotto dallo Studio Ghibli.
Diretto da Hiromasa Yonebayashi (“Arrietty“, 2010) e basato sull’omonimo romanzo di Joan G. Robinson (uno dei 50 libri per “ragazzi” consigliati dallo stesso Miyazaki), Marnie è un semplice e delicato racconto di formazione, in cui, in buona sostanza, emerge il fondamentale valore dei legami fra le persone. Non importa quanto difficili o lontani si possa essere, non c’è distanza o difficoltà che i sentimenti e la volontà non possano colmare.
E proprio come la piccola protagonista Anna si reca in un villaggio marittimo dell’Hokkaido orientale per respirare meglio, così i legami positivi sono come aria che ci riempie i polmoni, facendoci rendere conto di quanto spesso, metaforicamente, viviamo senza respirare davvero, senza sentire l’odore, il significato delle cose.
Il misterioso incontro con la dolce Marnie, a cui è difficile non dare una qualche connotazione spirituale, quantomeno in modo allegorico, rappresenta appunto la presa di conoscenza, il riconoscimento, dell’importanza dei piccoli gesti di affetto, che spesso, incredibilmente, riescono anche a superare le barriere del tempo, dimostrando tutta la forza dei sentimenti che li hanno generati.
Per quanto Yonebayashi abbia lasciato lo Studio non appena terminato il film (estate 2014) e l’intera organizzazione Ghibli abbia iniziato un processo di (fisiologico) ricambio e ristrutturazione interna, “Quando c’era Marnie” è quindi una pellicola che, oltre agli stupendi e dettagliatissimi disegni ancora in stile tradizionale, riesce quindi a rielaborare concetti e simboli solo apparentemente semplici e lineari, calandoli in un contesto che se da un lato lascia intravedere l’ambientazione originale di Robinson (l’Inghilterra degli anni ’60), con tutti i risvolti del caso (cfr. l’estetica della villa e dei suoi occupanti, chiaramente europei), d’altro canto appare squisitamente nipponico nel suo modo di raccontare e tratteggiare delicatamente le evanescenti tracce delle emozioni e dei ricordi delle emozioni, nella vita di tutti i giorni, lasciandoci comunque e sempre incantati.