“Prelapsarian” è il sesto album per i Krallice, attivissimo combo “post-something” newyorkese, dopo “Ygg huur” (2015) e l’Ep “Hyperion” (rilasciato a gennaio 2016).
La ricetta di Colin Marston e soci si è ormai da anni consolidata attorno a dense e intricate strutture, in cui cerebralismi tecnici e spasmi ritmici rivestono il ruolo di veri protagonisti, ben più di melodie, vocals, atmosfere o epicità, che, sebbene presenti, riescono a emergere solo di rado, e per poco, dal marasma in continuo movimento, prodotto dalla band.
Tale cifra stilistica è contemporaneamente distinzione e limite dei Krallice, artefici di un sound che potrebbe benissimo annoiare e irritare, per il suo involuto minimalismo comunicativo, che trasmette esplicitamente ben poco, oltre che la succitata frenesia strumentale.
D’altro canto, però, questa attitudine è una precisa scelta interpretativa, che non a caso trova un perfetto parallelismo nei titoli dei brani e dell’album (in teologia “prelapsiano” è il periodo storico prima della caduta del genere umano in seguito al peccato originale), che evocano apocalittici scenari oltremondani (“Conflagration”), o, meglio, di un’umanità altra, fra il mondano e il divino (“Lotus Throne”), ma di ben difficile posizionamento, su un’ipotetica linea del tempo e della Storia (“Transformation Chronicles”).
Il risultato è un’esperienza d’ascolto intensa e di sicuro impatto, complice anche il ridotto minutaggio complessivo (35′ circa), per certi versi più prossima alle derive post-hardcore che a qualsivoglia esempio di stampo black metal. Non è infatti un caso che il sound dei Krallice risulti più assonante ai Dysrhythmia, ad esempio, che ai Deathspell Omega, per citare due illustri esempi di tecnicismo e frenesia interpretativa in campo estremo.
Fatti questi debiti distinguo, utili a inquadrare meglio l’orizzonte culturale di riferimento, prima ancora che il supposto genere di riferimento, “Prelapsarian” risulta una buona prova, che dimostra la tenuta del gruppo attorno a un concetto artistico ben definito, che, sebbene di non immediata e universale assimilazione, ha comunque indiscutibili qualità, malgrado una più libera sperimentazione di nuove soluzioni e differenti approcci, permetterebbe di ampliare e rinfrescare uno spettro sonoro che, altrimenti, rischia davvero di inaridirsi e risultare poco memorabile.